Se il voto ai 16enni è la giusta “scusa” per parlare di questione generazionale

Non è la prima volta che Enrico Letta propone il voto ai sedicenni, e non è nemmeno il primo a farlo nel panorama politico italiano. Eppure, tra le tante (40) proposte fatte domenica scorsa al momento del suo insediamento alla Segreteria del Partito Democratico, questa ha raccolto subito tante reazioni, positive come negative: ha già riaperto un dibattito sul tema, e questa forse è la nota più rimarchevole.

Ed è da sottolinearsi perché Letta, prima di arrivare a questa e ad altre proposte, ha introdotto il discorso parlando della sua esperienza come Professore, anzi Direttore della Scuola di Affari Internazionali alla Sciences-Po (Institut d’Etudes politiques) di Parigi, dove ha sviluppato e approfondito un rapporto sincero, diretto e di vero confronto con gli studenti, da cui pare proprio aver tratto spunti e stimoli sulle tematiche a cui i giovani d’oggi sono più sensibili. Letta ha detto di voler porre i giovani al centro della propria idea di partito nuovo, con la considerazione del poco peso che oggi hanno nella società e in politica, conseguenza del fatto che, come mai prima nella storia, sono la fascia d’età più scarna numericamente. Eppure le istanze di oggi dei giovani, è sembrato lasciar intendere Letta, saranno le questioni all’ordine del giorno di domani. In questo senso andrebbe perciò interpretata la proposta di Letta: dare spazio già adesso alla voce di chi oggi e in minoranza sarà il corpo centrale della società italiana domani.

Può essere anche interessante offrire una “mappa del mondo dove si vota a 16 anni”, ma… perché non cogliamo lo spunto dietro le parole di Letta, forti nel suo pensiero, e quindi fermiamoci un attimo a vedere quanti sono i giovani oggi in Italia, utilizzando come fonte Eurostat A (più autorevole di così!).

I primi dati di Eurostat che incontriamo sembrano subito confortare le riflessioni di Letta. «Nel 2019 più di un quinto (20,3%) della popolazione dell’Unione Europea era composto da persone di età pari o superiore ai 65 anni», fascia d’età che in Italia negli ultimi 10 anni (dal 2009 al 2019) è cresciuta del 2,5%. «Secondo le proiezioni la percentuale delle persone di 80 anni e più nella popolazione dell’UE sarà 2,5 volte superiore nel 2100 rispetto al 2019, passando dal 5,8% al 14,6%. La popolazione dell’UE al 1° gennaio 2019 era stimata a 446,8 milioni di persone. I giovani (0-14 anni) costituivano il 15,2% della popolazione dell’UE».
Lo scenario di contesto europeo per i giovani non appare roseo. Scendiamo al piano italiano. L’Italia ha allo stesso tempo la percentuale minore di giovani (13,2% della popolazione) e la percentuale più alta di persone (22,8%) con più di 65 anni rispetto alla popolazione complessiva nell’ambito dell’intera Unione Europea: non c’è altro Stato che abbia meno giovani né altro Stato che abbia più anziani. E presto detto che l’età media più elevata di tutta l’UE si registri, per forza di cose, in Italia: siamo a 46,7 anni, contro i 43,7 anni di media dell’UE intera, dato anche dal fatto che gli Stati “più giovani”, Irlanda e Cipro, hanno un’età media di 37,7 anni. Per forza che in Italia dicono ancora “ciao, ragazzo!” a chi ha 30 anni!

Per aumentare giusto un poco il carico, appare quanto mai utile andare a ripescare uno studio svolto da Alessandro Rosina nel 2007 per lavoce.info B, perché allora usava come termine di raffronto sul tema del voto ai sedicenni proprio il 2020, guardate un po’: «Se oggi (2007, ndr) la situazione è ancora di sostanziale equilibrio, entro il 2020 l’elettorato under 35 si troverà con oltre tre milioni di unità in meno rispetto a quello di 65 anni e più. Se si abbassasse a 16 anni il diritto al voto, la differenza – sempre nel 2020 – rimarrebbe comunque sopra i due milioni, compensando quindi solo parzialmente il divario.» Senza infiere troppo, si cita solo ancora la frase chiave di allora di Rosina, e forse valida ancora oggi: «Una misura di impatto limitato, ma di alto valore simbolico». Il dato significativo del 2007 era e resta che fu proprio quello l’anno in cui in Italia il numero di over 65 ha superato la fascia dei 18-34enni, ed in maniera inesorabile stando a statistiche e proiezioni future. Arricchiti (è l’auspicio di chi scrive) nel bagaglio, torniamo ora, consapevoli dello scenario di contesto sociale europeo ed italiano, al voto ai sedicenni con lo spirito utile per approcciarci al tema: «“Non basta dare il voto ai sedicenni. Bisogna toglierlo ai cinquantenni. Si vota da 16 a 49. (Quindi per me basta così, tanto il mio è sempre stato completamente irrilevante)”  : è l’opinione, irriverente di Luca Bizzarri. Vabbé, lui scherzava! Anche se, forse forse…scherzi a parte, torniamo a quanto in premessa, alla proposta di Enrico Letta, neo Segretario del Partito Democratico. Non sappiamo in realtà molto di più del sintetico auspicio ad abbassare l’età di voto a 16 anni. E però forse con questi elementi un ragionamento un po’ diverso lo si può impostare. Letta si era già espresso in questo senso tempo addietro: nel 2017, poi nel 2019 quando la proferì l’ancora capo politico del Movimento 5 Stelle Di Maio -seguito a ruota dall’allora Segretario PD Zingaretti-, e ancora l’autunno scorso. In particolare nel 2019 Letta, con poche più parole di domenica scorsa, affermò che serviva «una riforma costituzionale da fare in un anno: al voto i sedicenni». , già allora indicando che il suo lavoro fossero i ragazzi, quel ‘popolo di Greta‘ (Thunberg, per chi ancora non conoscesse il movimento Fridays for Future) a cui andrebbe finalmente dato l’ascolto che chiedono. Se non è chiarissimo quale sia l’iter scelto (o forse non si può nemmeno mettere il carro davanti ai buoi), non si può certo dire che Letta se ne salti fuori ora con questa proposta: è stato tra i primi a proporla, ormai quasi 4 anni fa, dalla sua almeno al pervicace coerenza di farla riemergere quando ne ha occasione.

Adesso però non esageriamo nemmeno: la proposta del voto ai sedicenni non è certo una geniale trovata del neo leader al Nazareno, eh: diamo uno sguardo a volo d’uccello sui proponenti del voto agli under18 negli ultimi tempi. Risalire al 1848 ad Antonio Rosmini è forse un poco provocatorio in senso opposto: egli affermava che il diritto di voto si dovrebbe riconoscere ad ogni cittadino di sesso maschile. Ma che sia una pietra di paragone -almeno su questo tema- un poco fuori tempo ce lo dice il proseguo, in linea con la sensibilità -giusto un poco patriarcale- del tempo: una volta divenuto adulto, ogni uomo voterebbe anche per moglie e figli, con la ratio «un voto per ogni bocca da sfamare».
Forse allora meglio tornare a tempi più recenti. La proposta in primo luogo venne avanzata nel 2004 al congresso nazionale ACLI dal Professor Luigi Campiglio prorettore dell’Università Cattolica di Milano, anche fondandola sul piano costituzionale e del diritto (naturale, si direbbe), e quindi sostenuta e rilanciata da Luigi Bobba, entrato 2 anni dopo in Parlamento proprio col PD quale elemento di spicco ovviamente nel terzo settore: magari vi fu un dialogo anche con Letta?
Nel 2007 la proposta venne rilanciata dall’allora neo e primo Segretario del PD, Walter Veltroni, con tanto di deposito di una proposta di legge al Senato, attuata in concreto alle primarie del PD in svariate (ma non in tutte) tornate.
Del 2011 è il libro “Riforme a costo zero” dell’economista -e fino a febbraio 2019 presidente dell’INPS- Tito Boeri, il cui passaggio ‘incriminato’ è il seguente: «Bisogna allargare ulteriormente il fronte di chi sostiene le riforme. I giovani non possono rimanere soli. Bisogna far pesare di più la loro voce, per esempio imitando l’Austria, che ha esteso il diritto di voto a sedicenni e diciassettenni. Vorrebbe dire aumentare l’elettorato di poco più di un milione di italiani – con un peso elettorale corrispondente a quello di chi ha superato gli 85 anni – e contribuirebbe a ridurre l’età dell’elettore mediano da 47 a 46 anni. Sarebbe un piccolo segno, ma significativo, di un maggior interesse verso i giovani e il loro peso nell’arena politica».

Dal 2013 Antonio Decaro, allora deputato, oggi sindaco di Bari e presidente di ANCI, depositò un disegno di legge che proponeva l’estensione del diritto di voto ai sedicenni per le elezioni amministrative locali (regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali-municipali).
E’ la Lega Nord a depositare una proposta addirittura di riforma costituzionale a novembre 2015, dove si legge  testuali parole: «la partecipazione al voto è il principio su cui si fonda il concetto stesso di democrazia. Per questa ragione la crescita progressiva del numero di cittadini che rinunciano a esercitare il diritto di voto è un segnale preoccupante che non può essere sottovalutato».
Poi venne il Movimento 5 Stelle: a gennaio 2016 un primo post di Beppe Grillo, nel 2017 ne parlarono Danilo Toninelli, Luigi di Maio e Davide Casaleggio, nel 2019 come detto di nuovo Di Maio e Grillo. E quindi appunto nuovamente Letta nel 2019 e nel 2020 proprio pochi mesi fa 7 (inaccettabile chi, almeno nel PD, si dicesse ora sorpreso di questa proposta davvero per nulla nuova per il nuovo Segretario).
Registriamo allora le reazioni, negative e positive, comunque tante -questo va notato: sarà perché a proporlo è il Segretario del PD o perché oggi davvero sta diventando tema caldo?- arrivate in questi giorni.
La prima reazione dell’opposizione è stata dura e di secco ‘no’ secondo Giorgia Meloni (FdI), le priorità per i giovani sarebbero ‘ben altre’, cioè istruzione, socialità e libertà, oggi messe a dura prova dalla pandemia e dalle contromisure messe in atto dai Governi, a suo dire ovviamente inadeguate.

Sul fronte del ‘no’ anche intellettuali di primo rango e peso: la psicologa Anna Oliverio Ferraris, che ricorda la tanta impulsività ed immaturità dei ragazzi così giovani; la filosofa Michela Marzano, che del PD è stata anche deputata tra 2013 e 2017, che richiama a dover occuparsi dei giovani sempre e che se mai andrebbero formati, mica «buttati nell’arena politica senza strumenti»; l’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, che indica tutte le conseguenze giuridiche, e quindi sociali, che avrebbe l’estensione del diritto di voto a soggetti non maggiorenni. 

Sul fronte del ‘si’ voci altrettanto autorevoli: se della posizione di Alessandro Rosina abbiamo già detto sopra, ovviamente reiterata in questa occasione anche provocatoriamente quando ricorda che un 16enne un 17enne che lavora oggi già paga le tasse e se quindi è sempre vero il caro vecchio “no taxation without rapresentation”…beh, sarà vero l’inverso nei loro confronti? A ribattere a Mirabelli pare sia il costituzionalista Francesco Clementi, facendone anch’egli una questione generazionale: «[…] è la demografia che determina la necessità di riequilibrare il problema del voto per i giovani, perché le decisioni di indirizzo del paese per lo più sono in mano a una generazione che ha meno futuro di quello che normalmente i giovani hanno. E questo produce differenze notevoli della definizione dell’agenda delle politiche, prima che della politica, del paese, inevitabilmente rallentando ogni spinta al futuro e alle scelte che esso comporta». A sostegno della tesi dell’abbassamento dell’età di voto vi sono state nel corso degli anni passati anche studi e ricerche: il professor David Runciman fece parlare di sé quando 2 anni fa propose di abbassare a 6 anni il diritto di voto; un autorevole studio diede prova che quando in Austria nel 2007 i sedicenni e diciassettenni acquisirono il diritto al voto, costoro si informarono tanto quanto i più anziani abituati a recarsi alle urne.

Non diamo conto nel dettaglio del fronte del ‘ni’, che annovera tra le proprie fila personalità quali la sociologa Chiara Saraceno.
Ancora due soli utili spunti, per chi avesse piacere ad approfondire il tema, si condividono volentieri. Il primo è uno studio italiano, di Regione Toscana, che però ha ormai una decina d’anni, che porta alla luce risultati interessanti proprio in ordine al verificare sia il merito sia la valenza empirica dei principali argomenti utilizzati nel dibattito sul possibile abbassamento dell’età minima di voto a 16 anni. Il secondo, più immediato, dalla modalità prettamente social, di facile e rapida consultazione e masticazione, è il post di Francesco Costa, vicedirettore de Il Post, sul proprio profilo Instagram in data mercoledì 17 marzo: alcune delle frasi più utilizzate avverso il voto ai 16enni, accompagnate dalle relative contro argomentazioni. A proposito di ciò: buone letture e buone riflessioni!

In conclusione, la si pensi come si preferisce: resta che forse è davvero arrivato per restare, non tanto il mero tema del diritto al voto per gli under 18, quanto l’interrogativo -vero e incontestabile- di come far pesare di più l’opinione delle generazioni millenial o Y (nati dal 1981 al 1996) e post- millenial o Z (dal 1996 al 2010), oggi numericamente svantaggiate e le cui istanze politiche e sociali paiono essere intercettate dalla politica, a qualsiasi livello, o mai o in estremo ritardo: il cambiamento climatico è il caso esemplare.
Ecco allora che, quale che sia l’esito della proposta del Segretario del PD Letta, l’auspicio che tutti dovremmo avere è un vero cambio di paradigma degli agenti politici (da intendersi con questa accezione non solo i partiti) alle istanze giovanili: d’altronde a che servirebbe dare loro il voto se si desse prova di ascoltarli già così, rebus sic stantibus, col voto dai 18 anni in su? Chissà che mai tornino ad avvicinarsene.

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