“Utero in affitto” tema di campagna elettorale: ma ha veri margini di realizzazione?

Espressione dispregiativa, pratica più o meno accettabile (“reato universale”?), morale, sensibilità personale, credenze e visione della società e del mondo: quante implicazioni ha il tema? Eppure non è solo questione politica ma anche giuridica: e se la società reale fosse più avanti?

 Una delle questioni su cui si sta concentrando l’attenzione oggi in campagna elettorale entro l’ambito del dibattito sui diritti -intesi in senso ampio- è la gestazione per altri (G.P.A.), volgarmente -e offensivamente secondo larga sensibilità- detta “utero in affitto”, più neutralmente “maternità surrogata” (meglio forse ancora la dizione portoghese “pance surrogate”?!).

Tra uno slogan e un intervento in lingua straniera, in tv -meglio se internazionale ed istituzionale- o in una piazza -meglio se spagnola e riempita da militanti di forze conservatrici-, Giorgia Meloni da tempo ha scelto che questo sia uno dei temi per la propria campagna identitaria, coniata con lo slogan “sono una donna, sono una madre, sono cristiana”.

E perciò il tema della “maternità surrogata” deve per forza di cose entrare in campagna elettorale.

E deve anche perché ormai da tempo il panorama giuridico italiano, europeo ed internazionale se ne occupano, non senza difficoltà né passi indietro seguiti da balzi in avanti. Il tema è scottante e scivoloso, sia sul fronte politico sia su quello giuridico, poiché è chiaro quanto sia difficile stabilire quale degli interessi dei singoli soggetti presi in considerazione dalla pratica debba prevalare, fosse anche di poco, sugli altri: quelli della donna che si presta alla gradividanza? Quelli del minore (“best interest of the child/of the chidren”) così procreato? Quelli del genitore che dona i suoi gameti? Quelli di quest’ultimo e del proprio partner definito “genitore intenzionale” (ne ha l’intenzione ma non ha un legame biologico effettivo col nascituro)?

La questione appunto è capace di interrogare tutti sotto più profili e con molteplici sfaccettature.

In Italia la questione non è certo nuova.
Il primo intervento normativo -a vietare la pratica- è stato la nota legge n.40/2004, che proprio nel suo nome dice “norme in materia di procreazione medicalmente assistita” (P.M.A.), avendo uno spettro più ampio, e avendo la ratio di garantire la genitorialità anche a quelle coppie che per cause naturali di salute di uno dei due partner non siano in grado di provvedervi autonomamente.
Lo spesso citato articolo 12 della legge 40 parla dei casi ove nessuno dei due membri della coppia che invita alla GPA sia donatore di gameti, essendo questa la fattispecie in Italia da allora vietata (e altamente sanzionata: da 600mila a 1milione di euro di multa).

Il punto quindi non è tanto se i genitori siano eterosessuali o omosessuali, se la famiglia sia “naturale” o meno, quanto se i gameti sono di entrambi i soggetti futuri genitori, di uno solo (e quindi uno sia effettivo e l’altro “intenzionale”), o di nessuno dei due (essendo entrambi “genitori intenzionali”).

Con il più recente testo di legge, presentato alla Camera nel 2021 ed ivi approvato come testo base ad aprile scorso, appena 4 mesi fa, si prevede di rendere “universale” il reato previsto dall’articolo 12 della legge 40, ossia perseguibile dallo Stato Italiano ovunque nel mondo e contro qualsiasi soggetto. Tralasciata la valutazione di legittimità -dubbia- di tale fattispecie “universalistica”, è chiara la volontà politica di tale testo.

Va subito detto che il testo sarà come non fosse mai stato scritto, data la scadenza della Camera, eppure sarà ben ri-proponibile, ovviamente, anche ad immediato inizio di nuova (XIX) Legislatura, anche perché ad aprile ha ottenuto l’ok dei seguenti partiti: Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, tra le cui fila non mancò di farsi sentire, anche con toni entusiastici, non solo Giorgia Meloni, leader del CentroDestra, ma anche la Ministra Mara Carfagna, ora tra i leader del cosiddetto “terzo polo”, ovvero punta di diamante del partito Azione di Carlo Calenda. Potrebbe essere un primo banco di prova per misurare la capacità di tenuta (o di frazionamento) dei quattro blocchi/coalizioni elettorali che vedremo il 25 settembre.

Cosa succede in altri Paesi del mondo?
Il quadro è sfaccettato.
Il caso indicato sempre e per primo da chi teme o avversa la GPA è quello dell’India: lì è un procedimento a pagamento, quindi la donna che la pratica trae un beneficio economico finanziario dalla sua -giuridicamente parlando- prestazione. Ciò avviene per motivazioni innanzi tutto economiche: le cattive condizioni di vita portano non poche donne a prestarsi alla pratica. Inoltre ciò ha il potenziale di alimentare un business su cui lucrare. La questione è molto spinosa perché riguarda in maniera inscindibile valutazioni morali, religiose, e di sensibilità personale, eppure sarebbe in fin dei conti uno dei tanti modi di “prestare” -in senso giuridico, come un muratore- il proprio corpo a fini di guadagno. E’ chiaro che le implicazioni sono molteplici. Uno spunto di riflessione per chiunque a interrogarsi su quanto la morale influenzi, anche giustamente, le scelte collettive in ambito politico e quindi giuridico.

In Regno Unito, Danimarca, Belgio e Portogallo la GPA è consentita, cioè si può legalmente praticare ma a patto che sia a fine gratuito: sarebbe così evitato ogni fine di lucro, di guadagno, che, tolto lo spettro morale, elimina i rischi di sfruttamento della donna, garantendo la propria libertà di scelta. La più recente approvazione è avvenuta a fine 2021 in Portogallo, ed oltre al carattere di gratuità, vi sono altri requisiti e caratteri necessari per la legittimità della prestazione, specificati nella legge: la donna che si presta alla pratica può decidere di tenere con sé il bambino fino a 20 giorni dal parto; è bene inoltre abbia già condotto altre gravidanze; ha ottenuto un parere positivo dal collegio dei medici nonché dal collegio degli psicologi.

Infine vi sono i paesi che prevedono legalmente la GPA anche (e quindi soprattutto) a pagamento, con procedimenti e percorsi dotati di maggiori garanzie per tutti i soggetti coinvolti: Stati Uniti, Canada, Albania, Grecia e, fino a qualche tempo fa, Ucraina.E in Italia quindi quale è lo stato dell’arte?
Tra 2017 e 2021 la Corte Costituzionale si è trovata a decidere più volte su diverse fattispecie afferenti a casi concreti di GPA, cambiando notevolmente la propria posizione nel corso di un tempo così breve.
Se nella sentenza 272 del 2017 la Corte suggeriva un percorso legale indicando le vie dell’adozione del minore da parte del “genitore intenzionale”, nella sentenza n.33 del 2021, dichiarando insufficiente l’istituto dell’adozione, si è arrivati all’espressione di un monito certamente chiaro in senso quantomeno assai differente: «nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore», la Corte pretende l’intervento del Legislatore poiché vi sono implicazioni politiche che la Corte di per sé non può sciogliere.

E non sia visto ciò come un sottrarsi a decidere da parte della Corte Costituzionale! Anzi, è atteggiamento del tutto rispettoso del suo ruolo, dopo aver agito in varie occasioni tentando di intervenire in supplenza del Legislatore. Quando la Corte decide è certamente legittimata dalla Costituzione poiché così ivi è scritto, eppure la legittimazione sostanziale poggia su elementi non solo giuridici ed obiettivi ma anche su elementi del tutto soggettivi, quindi diciamo pure politici. Il giurista Enzo Cheli così li esplicitava: «elementi che risultano legati all’accumulazione giurisprudenziale, all’autorevolezza dei precedenti, alla trasparenza degli argomenti addotti a sostegno delle pronunce, che, per la materia trattata, devono poter trovare rispondenza nel senso comune che si esprime attraverso i comportamenti della collettività».

Ma come si è arrivati a questa posizione della Corte tale per cui mette in mora in Parlamento ad agire, a scrivere un testo di legge che dia disciplina alla materia, in un certo senso in maniera non dissimile dall’altrettanto politica e sensibile questione del “fine vita” (“eutanasia”, con espressione più “terroristica” e non appropriata).

Già nel 2014 e poi ancora nel 2020 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) ha sancito con due sentenze provenieni da vicende francesi che vi sia un margine assai ridotto per gli Stati per non riconoscere il legame tra bambino e “genitore intenzionale”, mentre discrezionale è lo strumento, l’istituto giuridico, attraverso cui garantire tale legame. Ciò che conta per la Corte è garantire la permanenza per il bambino delle proprie relazioni, al punto che la permanenza può anche prevalere sulle norme imperative (non derogabili in alcun modo) di ogni singolo Stato.
Va però detto che la Corte EDU ha agito nell’ambito di un suo più esteso campo di azione dato dall’adozione dell’articolo 16 del protocollo addizionale, protocollo non ancora adottato in Italia (ma che adottarsi si deve e dovrà, non è atto suscettibile di opzione).

E così, certamente influenzata del “dialogo tra le Corti” che avviene continuamente a livello europeo, la stessa Corte Costituzionale Italiana con le sentenze 221 del 2019 e 230 del 2020 nonché la 32 del 2021 e quindi la più recente 33 del 2021 si è trovata progressivamente ad evidenziare la propria difficoltà di movimento e quindi intervento in un ambito di giurisdizione anzitutto politico, in mano al Parlamento, al Legislatore.
Il problema è che se dal 2017 era considerata in un certo senso adeguata l’adozione per casi particolari, ora risultano sprovvisti di disciplina tutti i nuovi casi, ed infatti la Corte di Cassazione con la ordinanza 1842/2022 non ha tardato a evidenziare la problematica situazione di vuoto normativo.

Cosa possiamo concludere?
Il reato “universale” appare politicamente comprensibile e dalla immediatezza comprensiva assoluta, tanto quanto però difficilmente realizzabile poiché in contrasto con principi di diritto europeo ed internazionale del tutto evidenti.
Non osta però -anzi la Corte Costituzionale invita- alla redazione di una norma, di una disciplina legale della GPA. Così come, ad un suo più espresso divieto, sotto ogni forma, anche utilizzando gameti di almeno uno dei due partner che vi ricorrono.

Per molti versi, anche e soprattutto per le pronunce espresse dalle Corti, sia internazionali sia italiane, sarà poi arduo una disciplina di divieto regga allo scontro col diritto vivente e con i casi già verificatesi. D’altronde però un divieto assoluto renderebbe illegale ogni nuovo caso di GPA, assicurando in breve tempo (è pratica non diffusa e dal difficile accesso d’altronde) la totale scomparsa.

Si tratta quindi di valutazioni preponderantemente politiche e strategiche in mano alla coalizione che vincerà (qualora capitasse e non si verificasse per la terza volta una sorta di “stallo alla messicana”) le elezioni del 25 settembre.
Tutto è possibile poiché la politica è anche l’arte del(l’im)possibile…eppure pare difficile il realizzarsi effettivo di un divieto di casi ormai non rari verificatisi nonché la negazione di una giurisprudenza ormai decisamente più avanti dell’opinione pubblica. Forse anche perché la giurisprudenza non si perde in teorizzazioni e idealizzazioni, ma base le proprie parole e le proprie scelte su ciò che accade realmente, su fattispecie concrete, su casi non di scuola o strampalati o estremi, ma su vicende vere e concrete, su storie di persone in carne ed ossa.

Le valutazioni personali invece e le riflessioni di cui queste righe vogliono essere uno spunto possono ben librarsi a partire da ora (o meglio ulteriormente svolgersi).
Volendo offrirne ancora qualcuno, se ne accennano talune.
Avrebbe senso considerare la soluzione portoghese per cui la donna gestante possa decidere anche dopo il parto se tenere con sé il/la figlio/la?
Avrebbe senso includere il cognome della madre gestante nell’identità del/la figlio/a al fine di rendere verità delle relazioni complesse che hanno consentito il verificarsi della sua nascita?

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