La politica deve tornare a parlare di sogni. Dobbiamo riscoprire quel linguaggio che punta al futuro, che riaccende speranze e non si alimenta delle nostre paure. Viviamo in un’epoca in cui il dibattito pubblico è dominato da una narrativa che si concentra su ciò che dobbiamo temere, che spesso fa leva sui timori più profondi. Ma dove è finita la politica che ispira, che traccia una via verso un domani migliore?
È il momento di pretendere una politica che sappia guardare oltre le difficoltà contingenti, che abbia il coraggio di immaginare un mondo più giusto e inclusivo, un mondo dove ogni individuo possa crescere e svilupparsi, dove il valore del benessere comune supera l’interesse personale. Questo ritorno alla visione richiede leader in grado di delineare una strada verso la sostenibilità ambientale, l’innovazione sociale e la giustizia economica, una strada dove ciascuno si sente parte di un progetto collettivo.
La politica del futuro non può essere costruita sul timore dell’altro, sulla minaccia di ciò che non conosciamo, su promesse di “barriere” e “muri”. Deve, piuttosto, gettare ponti e creare spazi di dialogo, saper costruire alleanze che vadano oltre le appartenenze territoriali o le differenze culturali. Deve riaccendere il desiderio di un domani in cui non esiste la competizione tra diritti, ma il rispetto per ogni diritto, una politica che restituisca alla parola “futuro” la sua valenza di promessa, non di timore.
Quando è stata l’ultima volta che la politica ci ha emozionato? Che ci ha fatto sognare, credere che ogni passo in avanti fosse una conquista per tutti e non solo per pochi privilegiati?
Oggi, la vera sfida è questa: ripensare il linguaggio politico in termini di opportunità e non di minacce, parlare di un futuro desiderabile in cui tutti possiamo riconoscerci e che tutti, insieme, possiamo costruire.
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