Primo Maggio: il lavoro è un filo sottile che tiene insieme il paese

Il Primo Maggio non è una ricorrenza: è un grido che ogni anno torna a farsi sentire tra cortei, bandiere, manifesti e silenzi. Un giorno che ci costringe, volenti o nolenti, a fermarci e fare i conti con il valore — e il prezzo — del lavoro.
Oggi più che mai, in un’Italia dove la busta paga spesso non arriva a fine mese, dove si muore ancora di fatica, e dove la maternità continua a essere considerata un inciampo nella carriera di una donna, il senso di questa giornata si fa urgente, necessario, politico.

I numeri parlano da soli. In un Paese che cresce meno degli altri e investe sempre meno in sicurezza, ogni giorno tre persone perdono la vita sul lavoro. Lo chiamano “sistema”, ma è un sistema che continua a fallire — soprattutto per chi lavora nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi.
Accanto a chi non torna a casa la sera, ci sono milioni di persone che lavorano e restano povere: spesso giovani, spesso donne, ingabbiate in contratti precari, part-time involontari, salari che mortificano la dignità.

Le donne, in particolare, continuano a pagare il prezzo di un mercato del lavoro che non le considera davvero. Occupazione femminile più bassa della media europea, penalizzazioni per la maternità, carichi familiari sbilanciati.
Poi ci sono gli invisibili: non quelli che non si vedono, ma quelli che si finge di non vedere. Le finte partite IVA, i piccoli freelance che tirano avanti a suon di micro-commesse, lavorando sette giorni su sette, senza ferie, malattia, maternità, tutele. Gente che vive sotto ricatto, con contratti mascherati, in assenza totale di protezione.

E c’è chi, ogni giorno, si prende il carico di raccontare tutto questo. Chi fa informazione. Chi si assume il compito di documentare la realtà, di spiegare, di dare voce. Non ci siamo mai fermati, nemmeno un singolo giorno. Non lo abbiamo fatto durante la pandemia, né davanti alle crisi, né quando il nostro stesso lavoro è diventato fragile, bersaglio di minacce, intimidazioni, precarietà.
Perché credere nell’informazione come bene pubblico è il nostro modo di onorare il lavoro. Perché senza una stampa libera e indipendente, nessun diritto — nemmeno quello al lavoro — può dirsi davvero garantito.

Dentro questa complessa geografia del lavoro, si affaccia oggi una trasformazione che riguarda tutti: quella dell’intelligenza artificiale. Una rivoluzione che promette efficienza e produttività, ma che, senza regole e visione, rischia di aumentare le disuguaglianze e di cancellare migliaia di occupazioni.
Non possiamo parlare del lavoro che cambia senza interrogarci su quale futuro vogliamo. Senza strumenti di accompagnamento, non sarà evoluzione ma sostituzione. Non progresso, ma rottura.

Eppure, non tutto è oscurità. Ci sono imprenditori, commercianti, artigiani che scelgono ogni giorno la via dell’etica, della legalità, del rispetto. Che investono in sicurezza, relazioni umane, formazione e innovazione. A loro va il nostro massimo rispetto.
Così come a ogni lavoratore e lavoratrice: dal top manager allo stagista, dall’operaio al ricercatore.
Ogni ruolo è un ingranaggio essenziale di questo Paese, e ogni lavoro — ogni singolo lavoro — merita dignità, riconoscimento, tutele.

Il Primo Maggio ci chiede questo: non solo di celebrare, ma di pretendere. Che nessuno sia lasciato indietro. Che nessuno sia sfruttato, ignorato.
E che il lavoro — finalmente — torni a essere ciò che la Costituzione aveva promesso: non una pena, non un privilegio, ma un diritto. E un pilastro della nostra Repubblica.

Buona festa del lavoro.

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